domenica 22 marzo 2015

OGNI MALEDETTO NATALE - Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre, Luca Vendruscolo (2014)

Titolo originale: Ogni Maledetto Natale
Regia: Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre, Luca Vendruscolo
Con: Francesco Pannofino, Marco Giallini, Laura Morante
Durata: 96 min
Paese: ITA          
Voto globale: **
Voto categoria (natal.): ** 1/2

Massimo vive a Roma, si occupa di microcredito ed appartiene ad una delle più ricche ed influenti famiglie italiane. Giulia è una neolaureata in architettura che ha dei sogni più ambiziosi rispetto a quelli desiderati dalla propria famiglia, molto folkloristica residente nelle isolate campagne viterbesi. I due ragazzi si conoscono e si innamorano a pochi giorni dal Natale. Nonostante le proprie avversioni nei confronti della festività Massimo accetta di trascorrere la vigilia con la particolare famiglia di Giulia che, a sua volta, si ritroverà in qualche modo a casa di Massimo il giorno seguente, a poche ore da un tanto agognato pranzo messo in dubbio all'ultimo momento da un evento drammatico e grottesco. Riuscirà l'amore a sopravvivere al Natale, ma soprattutto alla conoscenza delle rispettive famiglie?

Ciarrapico, Torre e Vendruscolo sono quei tre geni e talentuosi sceneggiatori e registi che ci hanno regalato quella perla indiscussa ed indiscutibile che è la serie tv “Boris”, nata su sky e poi cresciuta e divenuta mito grazie al passaparola e allo streaming. Dopo tre stagioni brillanti in cui grazie alle storie quotidiane di una piccola troupe di squallide serie tv si raccontava tantissimo sulle dinamiche nei rapporti di lavoro, dei giochi di potere o più semplicemente dei vizi e virtù italiane, l'esperimento è approdato al cinema con “Boris – Il Film” del 2011. Nel film, il povero Renè Ferretti ha per la prima volta la possibilità di realizzare qualcosa di bello ed importante, un film serio: “La Casta”. Poi tutto però va male, perché i produttori ed il pubblico vogliono altro. Vogliono un cinepanettone in grado di “sbigliettà”, di fare botteghino, in cui ci sia una storia semplice e tante tette, culi e peti. Ora, “Ogni Maledetto Natale” si discosta in maniera decisa dal “cinepanettone” classico, quello diciamo dell'immaginario collettivo. Ma c'è da dire che la tendenza dei film natalizi è cambiata già da un po' (basti pensare a gli ultimi Neri Parenti). Ma pur cercando di proporre qualcosa di nuovo e diverso, perché un film natalizio? Sembra quasi che gli autori di “Boris” vogliano allegramente contraddirsi o peggio prendere in giro coloro che ritenevano sincere le loro prese di posizione. Tra l'altro stiamo parlando per giunta di un film che di natalizio ha poco o nulla. Il Natale è utilizzato come puro pretesto e non come reale sfondo alla storia (es: quel capolavoro che è “Parenti Serpenti”). Togliendo qualche albero e decorazione dalla scenografia il risultato non cambia. Il film vuole soltanto cercare di raccontare l'imbarazzo di una coppia nello scoprire che le proprie famiglie, per quanto lontanissime in ogni aspetto, sono allo stesso modo raccapriccianti! Cosa che si sarebbe potuta raccontare a Pasqua come a ferragosto.

Conoscendo i tre registi e con un cast di attori validissimi (Pannofino, Mastandrea, fratelli Guzzanti, Giallini, Morante) il risultato è davvero intollerabile. Al di là del fatto che del Natale non è raccontato nulla, la storia è per molti versi assente. L'esile sceneggiatura punta tutto su delle sequenze pensate per essere il punto forte del film ma che in realtà portano solo noia e sconforto. Basti pensare alla inutile caccia al cinghiale o agli interrogatori della polizia. Regia basilare, fotografia a tratti molto buona, musiche spesso fuori luogo. Seconda parte nettamente superiore alla prima comunque, in cui Guzzanti riesce a strappare sorrisi qua e là. Non mi pronuncio più di tanto su Cattelan e Mastronardi, di fatto eclissati dal resto del cast e protagonisti di una storia d'amore di cui allo spettatore non potrebbe importare di meno. Molto bella la voce narrante di Valerio Aprea. Ottimo Giallini (come sempre) e molto bravo Mastandrea nel suo particolare personaggio della seconda parte. Per il resto, si rimane con un senso di occasione mancata abissale e molti dubbi interiori. Ma in fondo non è questa, “la Locura”?

mercoledì 18 marzo 2015

I'M A CYBORG BUT THAT'S OK - Park Chan-wook (2006)

Titolo originale: Cyborgjiman gwaenchanh-a
Regia: Park Chan-wook
Con: Su-jeong Lim, Jeong Ji Hoon, Hie-jin Choi, Byeong-ok Kim, Yong-nyeo Lee
Durata: 105 min
Paese: KOR S                 
Voto globale: **** 1/2
Voto categ. (asia '00): ****


Young-soon subisce un duro colpo quando la cara nonna, che mastica radici e si crede un topo, viene portata via dai “camici bianchi” e rinchiusa in manicomio. La ragazza reagisce allo shock in maniera particolare e si convince di non essere un'umana ma una sorta di robot, un cyborg. Impiegata in una fabbrica di radio, un giorno Young-soon si pratica un taglio nel braccio e vi inserisce dei cavi elettrici. La ragazza prende una forte scossa e viene suo malgrado portata in una casa di cura. Inizia per Young-soon una nuova vita, quella in manicomio, durante la quale si rifiuterà categoricamente di nutrirsi (perchè i cyborg non hanno bisogno di mangiare) ed avrà modo di incontrare simpatici quanto problematici pazienti. Tra loro spicca Park Il-sun, un giovane con tendenze schizofreniche ed antisociali con cui nascerà un'amicizia e forse qualcosa di più.

Park Chan-wook è uno dei registi di punta del cinema sudcoreano e non solo. Celebre è la sua trilogia “della vendetta”, di cui molti ricorderanno “Oldboy” del 2003. “I'm A Cyborg But That's Ok” si distacca completamente dalla produzione precedente di Park, che in questo caso rinuncia alla violenza per abbracciare la leggerezza e la delicatezza di una storia che appassiona fin dai primi minuti. Certo, il film in realtà impiega un po' di tempo a carburare ed è facile esserne spiazziati all'inizio. Parliamoci chiaro, la storia è anticonvenzionale al massimo e sfido a definirla banale! Però questo che allo spettatore curioso appare come uno dei pregi principali del film potrebbe sembrare invece un ostacolo per lo spettatore abitutato a storie più... diciamo lineari. La pellicola tratta la malattia mentale in una maniera spensierata ma poetica, sempre dalla parte dei pazienti di cui scopriamo dettagli delle varie manie ed ossessioni, particolari e caratteristiche e che molto spesso sono di grande aiuto per l'evolversi delle vicende. Geniale la figura dell'uomo con i complessi di colpa e che ha quindi sempre la necessità di scusarsi anche per fatti dei quali non ha alcuna responsabilità, nonché ovviamente il personaggio di Park Il-sun che fin da subito prende a cuore la causa della dolce Young-soon, che cerca di aiutare come può. Il ragazzo ha la fama di essere un gran ladro ed è capace (almeno così si crede) di scambiare la propria personalità con quelle altrui. Il film si basa su trovate grafiche e simboliche. Da segnalare è che il confine tra scene profonde e poetiche e scene grottesche è davvero sottile (basti pensare a tutte scene con la nonna). Ma è proprio questa ambiguità che crea un effetto che funziona alla grande. Come fatto notare da qualcun altro, il film potrebbe nelle atmosfere ricordare “Il favoloso mondo di Amélie”. Ma il film di Park è a mio avviso davvero di un'altra categoria sotto ogni punto di vista. La regia è elegante e folle in certi punti e questo non può che essere un gran un bel complimento. Fotografia bella e appropriata, così come tutto il comparto tecnico. Colonna sonora emozionante ed attori credibili! 

Questo e altri film dimostrano che il cinema sudcoreano è attualmente uno dei più interessanti nel panorama internazionale. Di sicuro parliamo di storie molto spesso fuori dall'ordinario e decisamente lontane dalla cultura occidentale. Ma proprio per questo è necessario dare una chance a film come “I'm A Cyborg But That's Ok”, perché vi si potrebbe aprire un mondo che è davvero un peccato ignorare. Regolarmente snobbato in Italia, non esiste una versione doppiata. Inutile dire che ciò è davvero un peccato, perché l'idea di vedere un film sudcoreano sottotitolato non alletta i più. Tra le scene clou, quelle con la nonna e quelle più oniriche e di immaginazione, nonché tutte quelle dei momenti speciali tra Young-soon e Park Il-sun. Consigliato a chi cerca qualcosa di nuovo e non ha nessun tipo di pregiudizio sul delicato tema della malattia mentale quanto sui film dalle storie fuori dagli schemi. Da vedere più volte!

domenica 15 marzo 2015

BRÜNO - Larry Charles (2009)

Titolo originale: Brüno
Regia: Larry Charles
Con: Sacha Baron Cohen, Gustaf Hammarsten
Durata: 81 min
Paese: USA                   
Voto globale: * * *
Voto categ. (mockum.): * * * *

Finto documentario che segue le vicissitudini di Brüno, gay, giornalista di moda e sua volta di modello di (a suo dire) diciannove anni che sbarca negli Stati Uniti e che entra in contatto con bigotti e scambisti, ma anche personaggi del mondo della moda, televisione e politica. Un solo obiettivo: diventare la star più famosa al mondo. Ci riuscirà? Molteplici i siparietti deliranti tra i tentativi di girare un film hard con un politico, diventare a tutti i costi un attore, proporre un format televisivo decisamente spinto, far riappacificare ebrei e palestinesi e adottare un bambino di colore. Accompagnato dal fido assistente Lutz, l'irriverente Brüno provoca e stuzzica l'americano medio non rinunciando a massicce dosi di politicamente scorretto. Simpatica e irreale partecipazione nei titoli di coda di star quali Sting, Elton John, Bono e Slash.

Sacha Baron Cohen è indubbiamente un fenomeno. A tre anni di distanza dal ben più noto “Borat”, il finto giornalista kazako in viaggio sempre negli Stati Uniti, ritorna con un nuovo personaggio, l'austriaco ed ambizioso Brüno. E, anche se pareva difficile, lo fa in maniera ancora più incisiva e cattiva e mette a nudo ipocrisie e bassezze dell'America più retrograda. Certo Cohen ci va sul pesante e di sicuro non è semplice resistere alle sue provocazioni, specialmente per la tipologia di soggetti che ha deciso di incontrare per la realizzazione di questo mockumentary fracassone ed allucinato. Ma qui sta il gioco dell'attore (e sceneggiatore): provocare andando a colpo sicuro, basti pensare alla scena con il reverendo a capo dell'associazione per la conversione degli omossessuali. Il punto di forza di tutta l'operazione è senza dubbio l'interpretazione di Cohen, che riesce ad immergersi nei propri personaggi e dà loro vita in maniera coinvolgente e vera al massimo. Inoltre il tutto si regge su una sottile patina di credibilità che fa si che il personaggio di Brüno, per quanto esagerato e scorretto al massimo, sia in realtà realistico agli occhi di chi lo vede davvero come un giovane ambizioso austriaco gay in cerca di fortuna negli USA. Cohen non risparmia nessuno e molte ipocrisie saltano all'occhio senza pietà. Incredibile la parte con i genitori disposti a tutto per far partecipare i propri figli, poco più che neonati, a campagne pubblicitarie di pessimo gusto. Nota di merito per la versione italiana, con l'ottimo Pino Insegno al doppiaggio che riesce a restituire una voce davvero perfetta e aggiunge spesso quel qualcosa in più alla carica comica delle battute di Cohen. << D&G... Dolce e Gabbana, buongiorno? >>

Un film che ha diviso in maniera incredibile e non di certo in parti eguali, tra detrattori e convinti, dovendo per forza di cosa notare una netta preponderanza dei primi. Ma che fa ridere e parecchio. Una visione non facile e sconsigliata per una serata in famiglia, perché i livelli di imbarazzo e sdegno che potrebbero toccarsi sono molto elevati. Inutile dire che una delle accuse principali al film è la sua volgarità, concetto quanto mai fumoso ma comprensibile. Aspettatevi peni roteanti e altre assolute oscenità, che però non restano fine a se stesse. Ogni volta che Cohen ci mostra qualcosa di estremo è come se volesse dirci “ecco, se ti sdegni e inorridisci sei proprio il tipo di persona che il film vuole mettere in ridicolo”. Ovvio che l'operazione la si può non apprezzare senza essere accusati di omofobia. Basti pensare che Brüno” è stato criticato anche per essere apertamente una continua offesa al mondo gay. Quindi dove sta la verità? Una visione potrebbe chiarire le idee.

NOVECENTO - Bernardo Bertolucci (1976)

Titolo originale: Novecento
Regia: Bernardo Bertolucci
Con: Robert De Niro, Gérard Depardieu, Burt Lancaster, Donald Sutherland, Alida Valli
Durata: 316 min
Paese: ITA, FRA, GER         Voto globale: ****
Voto categ. (cult): **** 1/2


Il 27 Gennaio 1901, suggestiva data che coincide con la morte di Giuseppe Verdi, nascono nella stessa azienda agricola dell'Emilia due bambini: Alfredo, figlio dei ricchi proprietari (De Niro) e Olmo (Depardieu), figlio di contadini. I due crescono inevitabilmente a stretto contatto e pur se dediti alle stesse attività e giochi, avvertono fin da subito la profonda differenza che li caratterizzerà per tutta la vita ma che non impedirà la nascita di una strana e conflittuale amicizia. Scorrono quasi cinquant'anni di storia e i cambiamenti che guerre e sviluppo agricolo portano nelle campagne, tra rivendicazioni dei contadini, la nascita delle organizzazioni socialiste a difesa dei lavoratori, l'avvento del fascismo “contadino” fino ad arrivare ad un evocativo e simbolico giorno della Liberazione. 

Film fiume della durata di oltre 5 ore che non stancano e scorrono veloci. Diviso in due atti proiettati in momenti diversi per garantirne la fruibilità nei cinema. Mutilato di oltre 2 ore nella versione flop americana (flop per motivi politici o per il taglio è tutto da capire). Bertolucci non si risparmia, ha un'idea precisa e la porta avanti con noncuranza. Un film che ha la pretesa di essere “definitivo”, di avere l'ultima parola ad ogni costo. Per molti versi ci riesce pure. Un film dai forti contrasti, in cui convivono senza problemi centinaia di veri contadini come comparse e divi già allora affermati. Cast notevole con De Niro, Depardieu, Lancaster, Sutherland e Stefania Sandrelli. Fotografia superba di Storaro (eccezionale la scena a cena con la luce del sole al tramonto). Musiche di Morricone, un nome una garanzia. Tutto molto giusto ed azzeccato, orchestrato da un Bertolucci senza dubbio ispirato. Resta un però. Il però è dato dal dubbio che il film pretenda di essere per molti versi “storico”. La pellicola ha senza dubbio il grande merito di trattare con grande maestria e cura tecnica, scenografica ed attoriale un momento importante della storia italiana come l'avvento del fascismo e lo fa molto bene. Allo stesso tempo, il film resta in ogni caso per forza di cose fortemente ideologico e questo toglie un po' al giudizio complessivo a fine visione. Si ha la sensazione come se Bertolucci ci portasse per mano nel suo mondo, un mondo in cui tutto è necessariamente scritto nero su bianco, senza alcun minimo dubbio. Il film è quindi molto autoreferenziale. Apprezzato di certo da chi già sa cosa aspettarsi, farà storcere il naso a chi già sa cosa aspettarsi ma in un senso opposto.  

Novecento resta uno dei film più importanti ed iconici del nostro cinema. Lascia il senso di aver assistito ad uno spettacolo sì ideologico, sì di parte, dalle pretese didattiche ma anche sincero. Non fa nulla per sembrare ciò che non è. Quindi al di là delle opinioni personali, bisogna apprezzare l'aver realizzato un'opera che di fatto non ha paura di portare avanti la proprie idee, indipendentemente dal giudizio altrui. Certo, resta un po' di amarezza nel pensare che magari ci sarebbe stato un modo per portare avanti le stesse idee in una maniera più aperta e meno autoriferita, perché questo avrebbe giovato a tutti: avrebbe provocato e fatto riflettere tutti, ripeto tutti, gli spettatori. Proprio quello che dovrebbe fare un film del genere al cinema: far riflettere. Scene scandalose non poi così scandalose, neanche per l'epoca. Più di un momento davvero grottesco (praticamente tutti quelli con il folle quanto poco credibile Attila). Sicuramente un cult film da vedere almeno una volta!

TEMPESTE SULL'ASIA - Vsevolod Pudovkin (1928)

Titolo originale: Potomok Chingis-Khana
Regia: Vsevolod Pudovkin
Con: Valéry Inkijinoff, Boris Barnet, Aleksandr Chistyakov, Viktor Tsoppi, I. Didintsev
Durata: 125 min 
Paese: URSS                   
Voto globale: ****
Voto categ. (anni '20): ****


Mongolia. Un Lama prega per le sorti di un anziano malato. Il figlio del vecchio, Bair, ha un diverbio con il monaco per via di una preziosa pelliccia. Il Lama cade a terra e perde un antico manoscritto nascosto in un amuleto. Sarà quindi Bair a recarsi in un mercato lontano per rivendere la preziosa pelliccia, che garantirebbe sostentamento alla propria famiglia per molto tempo. Una volta arrivato, il giovane si scontra con la prepotenza di un arrogante venditore occidentale che aggredisce per avergli proposto un prezzo iniquo. Tutto è destinato a cambiare una volta che i colonizzatori inglesi fanno prigioniero Bair, che scoprono poi essere, per via del monoscritto, il diretto discendente di Gengis Khan.

Pudovkin chiude felicemente una ideale triologia iniziata nel 1926 con “La Madre”, proseguita con “La fine di San Pietroburgo” del 1927, e terminata appunto con “Tempeste sull'Asia” del 1928, anche noto in italia con il ben più semplicistico e spoileroso titolo di “L'Erede di Gengis Khan”. Dopo una madre e contadino, ora è il turno di un cacciatore mongolo (Valéry Inkijinoff) di prendere coscienza della necessarietà della rivoluzione. Pudovkin è senza dubbio un maestro, possibilmente, secondo un parere personale, (senza che passi come un'eresia) superiore al ben più quotato Ėjzenštejn, che punta in maniera più decisa su scene corali e di massa e su un montaggio frenetico che spesso toglie respiro alla storia. Pudovkin dimostra di saper gestire scene di massa e scene più intime, dosando il ritmo a seconda delle necessità e delle opportunità concesse dalla narrazione. Ma se il montaggio è una chiave determinante nel cinema di Pudovkin (come anche di Ėjzenštejn e del cinema sovietico in generale), in contrapposizione a Dziga Vertov e al suo “Cineocchio”, è l'inquadratura ad esserne la vera essenza. Come lo scrittore ha lo stile, il regista ha l'inquadratura unita al montaggio, veri e propri elementi della grammatica del film. Nulla è lasciato al caso, ogni angolazione, ogni gesto, ogni movimento dell'attore (raramente di macchina) è precedentemente studiato ed analizzato per ottenere quello che è definito un “montaggio di ferro”, fatto di parallelismi, giustapposizioni e contrasti voluti e spiazzanti. Pudovkin concepiva l'attore come un semplice oggetto da plasmare e dirigere in ogni suo gesto ed espressione. Una posizione molto estrema che lo indurrà a fare ricorso molto spesso ad attori non professionisti e a scatenare malumori con attori teatrali. Che dire, un autore esagerato ed appassionato, ma per questo meritevole di tutta la stima possibile.

Probabilmente non sarà il miglior film di Pudovkin, ma di certo è quello che in questa trilogia “della rivoluzione” è in grado di mescolare in maniera eccellente azione, epica, avventura e dramma . Spunti di riflessione notevoli del film sono l'ipocrisia data delle etichette e come esse siano in grado di cambiare da un momento all'altro l'opinione e la considerazione che dobbiamo avere delle persone, nonché il cinismo delle forze di occupazione, che non rinunciano a creare dal nulla un eroe nazionale per tenere a bada il popolo locale. Di certo non un film facile da vedere, soprattutto nella versione che supera le due ore, con scene di rituali e preparativi che potrebbero risultare estenuanti. Con cautela, da rivedere.

lunedì 2 marzo 2015

BIRDMAN - Alejandro González Iñárritu (2015)

Titolo originale: Birdman or The Unexpected Virtue of Ignorance
Regia: Alejandro González Iñárritu
Con: Michael Keaton, Zach Galifianakis, Edward Norton
Durata: 119 min 
Paese: USA
Voto globale: ****
Voto categ. (Oscars): ****

Riggan Thompson è un ex divo del cinema noto esclusivamente per il ruolo da lui interpretato per ben 3 film campioni di incassi, il supereroe Birdman. Ma Hoollywood è mutevole, il successo effimero. A distanza di 20 anni dalla gloria nasce nell'attore il desiderio di imporsi con le proprie forze, svincolarsi dall'ingombrante passato e affermarsi come regista teatrale a Broadway nell'adattamento di What We Talk About When We Talk About Love di Raymond Carver . Una vita familiare in costante crisi, problemi alle prove con gli attori (bravi e non), l'ossessione di piacere ai critici e di tornare in auge, la voglia di dimenticare il passato e di essere ricordati per qualcos'altro, per il proprio talento e il costante conflitto di Riggan, che continua a sentire dentro di sé la voce della ragione: quella del suo alter ego Birdman.

Il tema della malinconia per il passato in chiave “mondo dello spettacolo” non è certo roba nuova (es: Viale del Tramonto). Così come le storie di ex stelle che riprovano inutilmente a rimettersi in gioco, non capendo che il proprio tempo è finito o semplicemente che non si dovrebbe cercare di essere ciò che non si è. Ed è proprio questo che cerca di fare Riggan Thompson (l'eccezionale Keaton) che tenta di reinventarsi come regista ed attore teatrale intellettuale impegnato ma senza poter godere di credibilità, con un handicap enorme come quello di essere stato un divo di film di serie b. Iñárritu imbastisce un film che tecnicamente è mostruoso. Una regia imbarazzante (in senso buono ovviamente, è lo spettatore ad essere imbarazzato) e una fotografia azzeccata in ogni angolo possibile della scenografia. Attori eccezionali dal primo all'ultimo, ma non poteva essere altrimenti visto che parliamo di un film al limite dal teatro filmato. E proprio qui sta la forza/limite di Birdman. Per forza di cose è un film, e che film visto che praticamente ogni fotogramma sprigiona una carica cinematografica di rara potenza. Ma allo stesso tempo è un film che prescinde totalmente dall'essenza del cinema: il montaggio, la suddivisione in scene, inquadrature. In Birdman è tutto un flusso continuo. Il regista si diverte a farci vedere di cosa è capace e ne ha tutte le ragioni: ammalia, diverte, impressiona, stizzisce ma non stanca.

Che dire, magari proprio un capolavoro non è, ma ci manca davvero poco. Forse il tempo e qualche visione ulteriore sapranno chiarire le idee. Di certo resta la sensazione di avere assistito ad un film solido, con qualcosa da dire e detto bene. Sicuramente uno dei film più particolari e significativi di questi anni. Durata un filo troppo lunga. Superlativo Galifianakis. Si resta compiaciuti dal fatto che un film (magari con un po' di ipocrisia) molto anti “hollywoodiano” si sia imposto così nettamente agli Oscar. Simpatiche le parti più “comiche”, anche se non parliamo di comicità ma piuttosto di momenti buffi e grotteschi in una storia ed atmosfera che di commedia ha comunque poco. Belli pure i riferimenti a personaggi noti come Scorsese o Woody Harrelson e al potere che può concedere un semplice video di una celebrità che vaga in mutande a New York che diventa “viral”.

 

R.O.T.O.R. - Cullen Blaine (1989)

Titolo originale: R.O.T.O.R.
Regia: Cullen Blaine
Con: Clark Moore, Richard Gesswein, Margaret Trigg, Jayne Smith
Durata: 90 min
Paese: USA 
Voto globale: *
Voto categ. (brutto che piace): *** 1/2             


Barrett C. Coldyron è il capitano del dipartimento di polizia di Dallas, nonché artefice dell'ambizioso progetto circa la formazione di un esercito di robot poliziotti umanoidi capace di <<rendere più sicure le strade della città, fare in modo che le bande di punk, di spacciatori ed altra spazzatura umana possano essere effettivamente controllati, se non eliminati>>. Coldyron viene obbligato dal suo superiore ad accorciare leggermente le tempistiche della realizzazione del prototipo R.O.T.O.R. da 4 anni a 60 giorni. Colyron si rifiuta, si dimette e il progetto passa in altre mani. L'unità R.O.T.O.R. Verrà attivata accidentalmente e, in quanto ancora immatura e primitiva, inizierà a svolgere con troppo rigore le funzioni “to judge and execute”, perseguitando i malcapitati cittadini. 


Con poche idee (e prese qua e là da Terminator e Robocop) Cullen Blaine dirige un film involontariamente divertente già dalla prima scena. Scena che solo alla fine si rivelerà un flashback totalmente fuori da ogni logica e consecutio temporum. Le sequenze di comicità involontaria non mancano passando dalla lunghissima, estenuante presentazione di Coldyron e del suo ranch, la patetica scena delle bistecche, i siparietti di un altro robot poliziotto dalla voce risibile e ovviamente i momenti in cui R.O.T.O.R. Entra in azione.

R.O.T.O.R ci insegna che in un film la logica e il buon gusto non sono tutto e che si può ugualmente realizzare un qualcosa che merita di essere visto (per motivi diversi da quelli di chi cerca un bel film per la serata). Sicuramente consigliato a tutti gli amanti del vastissimo trash americano anni '80, che spesso ci delizia con perle come questa. Chicca assoluta: l'attizzante quanto mendace locandina che creerà aspettative puntalmente non ripagate già dai primissimi minuti. Provare per credere.

THE BUTLER, UN MAGGIORDOMO ALLA CASA BIANCA - Lee Daniels (2013)

Titolo originale: The Butler
Regia: Lee Daniels
Con: Forest Whitaker,Oprah Winfrey, John Cusack, Robin Williams, Lenny Kravitz
Durata: 113 min                 
Paese: USA                       
Voto globale: **
Voto categ. (formazione): **      


The Butler racconta il lungo cammino per la conquista dei diritti civili della popolazione di colore negli Stati Uniti e delle contemporanee vicende di Cecil Gaines e della sua famiglia. Fin da bambino Cecil è costretto a fare i conti con l'odio dell'uomo bianco e assiste alla drammatica morte del padre in un campo di cotone. Il giovane Cecil viene assunto in un hotel di Washington, si sposa e nel 1957 viene assunto come maggiordomo alla Casa Bianca. Partiamo dal presupposto che fare un film del genere non è facile. Ma se non è facile, perchè farlo ugualmente con il rischio (elevato) di toppare? Quando si è chiamati a raccontare così tanto il pericolo di scadere nella superficialità è dietro l'angolo e The Butler non fa eccezione.  


Questa lunga epopea, che sicuramente potrà emozionare e commuovere, lascia però l'amaro in bocca... anzi nemmeno quello, perchè il risultato è addirittura insapore. Un'ottimo soggetto, temi importanti, ma coinvolgimento che rasenta minimi non accettabili per un film del genere. Non si discute sulla bravura degli attori, cast molto eterogeneo, con un Forester Whitaker perfettamente in parte, una Oprah Winfrey tutto sommato credibile e qualche sopresa (Kravitz). Il problema è che tutti quanti, regista, attori, sceneggiatori, sono stati un po' troppo sicuri di fare presa facile con i temi trattati e si sono dimenticati quello che forse è l'aspetto più importante di un film: l'empatia personaggio-spettatore. Tutte le vicende trattate, anche quelle potenzialmente più interessanti come tutta la storia del figlio di Cecil e della sua lotta in prima linea per cambiare le cose, risultano un po' troppo didascaliche e piatte. Neanche i riferimenti storici vengono in aiuto. Penso alla morte di Kennedy, l'assassinio di Martin Luther King, tutte momenti trattati con una superficialità paurosa e non tollerabile. Tra i pochi spunti rilevanti, il rapporto tra Cecil e il figlio, sognatore questo e realista quello, e il loro scontro e poi incontro nella lotta per la causa, la crisi tra Cecil e la moglie trascurata.

 

Pochi sprazzi che comunque non riescono a risollevare l'impressione complessiva del film. Regia convenzionale, senza infamia e senza lode, niente virtuosismi o soluzioni ricercate ma alla fine è anche giusto, visto che l'importante qui era la storia. Occasione sprecata perchè in altre mani, con una sceneggiatura più seria e magari con poco meno di 2 ore di durata in più poteva scapparci un quasi capolavoro. Peccato.


IT di Stephen King - Tommy Lee Wallace (1990)

Titolo originale: Stephen King's IT
Regia: Tommy Lee Wallace
Con: Harry Anderson, Dennis Christopher, Richard Masur, Annette O'Toole, Tim Reid
Durata: 180 
Paese: USA 
Voto globale: ***
Voto categ. (cult): ***
 
Derry, piccola cittidina del Maine, anni '60. Una creatura mutaforme, IT, ogni 30 anni deve soddisfare la propria sete di terrore uccidendo bambini, gli unici in grado avvertirne la presenza. L'essere si palesa in particolare sotto le sembianze di Pennywise, un inquietante clown dagli occhi enormi (l'ottimo Tim Curry), che conosce perfettamente le più intime paure di ogni giovane abitante del luogo. Il pagliaccio si aggira nelle tubature, nell'oscurità e negli incubi peggiori. A tentare di fermarlo saranno quelli della “banda dei perdenti”, così ribattezzati dai bulli della scuola. Il gruppo di amici si conosce e si cementa dalla consapevolezza di essere emarginati e “perdenti”, appunto, nonché dall'avere in comune lo stesso incubo: IT. 

Ennesimo adattamento di un romanzo di Stephen King, IT è in realtà una miniserie televisiva (tra l'altro considerata la più spaventosa mai mandata in onda dalla tv americana) che cerca però costantemente una resa il più possibile cinematografica. E ci riesce per almeno 90 minuti. Sì perché è lampante la differenza tra la prima e la seconda parte del film, nonostante ci siano continui flashback e rimandi nel corso della narrazione. La parte iniziale ha tutta una sua atmosfera, gli anni '60, il gruppo di amici e le varie storie personali di ognuno di loro, i rapporti difficili con i genitori (spesso violenti). E poi c'è lui, il pagliaccio. Fin da subito misterioso e agghiacciante. Inoltre è perfettamente riconoscibile lo stile tipico dei film anni '80 per ragazzi (es: Stand By Me, I Goonies). Nella seconda parte molte cose cambiano, oltre ai protagonisti adulti. C'è una virata drastica da una storia che puntava sull'inquietare e su aspetti psicologici dei personaggi a una sorta di monster movie fantascientifico che lascia un po' perplessi. Inoltre la seconda parte spesso tradisce la natura (se pur buona) televisiva del prodotto. Di certo è sempre valido il discorso “ah ma il libro era un'altra cosa”. Io il libro non l'ho letto e mi limito a commentare quello che ho visto nella trasposizione. In ogni caso, la storia dovrebbe essere comunque questa (di certo con molti tagli) e quindi qualche critica puo' essere mossa soprattutto a King, che non rinuncia ad inserire un personaggio suo alter ego e termina la storia con un finale che definirlo banale e semplicistico è poco. 

Innegabile l'influenza che la figura di IT ha avuto su molte generazioni. Io stesso devo confessare che alla vista del pagliaccio maledetto qualche brivido mi viene, ripensando al timore che sapeva incutermi da piccolo. Il personaggio di Tim Curry può essere considerato un cult al pari di Freddy Krueger o di Leatherface. E questo è senza dubbio merito di Tommy Lee Wallace e dello stesso Curry. In definitiva un buon film tv con ambizioni cinematografiche, squilibrio tra prima e seconda puntata, durata eccessiva e un finale che lascia un po' l'amaro in bocca, consapevoli però di aver assistito comunque ad un classico dell'horror moderno che di certo continuerà ad affascinare ed inquietare se gli sarà data una possibilità.