Titolo originale: Potomok Chingis-Khana
Regia: Vsevolod Pudovkin
Con: Valéry Inkijinoff, Boris Barnet, Aleksandr Chistyakov, Viktor Tsoppi, I. Didintsev
Durata: 125 min
Paese: URSS
Voto globale: ****
Voto categ. (anni '20): ****
Mongolia.
Un Lama prega per le sorti di un anziano malato. Il figlio del
vecchio, Bair, ha un diverbio con il monaco per via di una preziosa
pelliccia. Il Lama cade a terra e perde un antico manoscritto
nascosto in un amuleto. Sarà quindi Bair a recarsi in un mercato
lontano per rivendere la preziosa pelliccia, che garantirebbe
sostentamento alla propria famiglia per molto tempo. Una volta
arrivato, il giovane si scontra con la prepotenza di un arrogante
venditore occidentale che aggredisce per avergli proposto un prezzo
iniquo. Tutto è destinato a cambiare una volta che i colonizzatori
inglesi fanno prigioniero Bair, che scoprono poi essere, per via del
monoscritto, il diretto discendente di Gengis Khan.
![](https://www.berlinale.de/media/filmstills/2012_1/retrospektive_3/20126334_1_IMG_FIX_700x700.jpg)
Pudovkin
chiude felicemente una ideale triologia iniziata nel 1926 con “La
Madre”, proseguita con
“La fine di San Pietroburgo” del 1927, e
terminata appunto con “Tempeste sull'Asia” del
1928, anche noto in italia con il ben più semplicistico e spoileroso
titolo di “L'Erede di Gengis Khan”.
Dopo una madre e contadino, ora è il turno di un cacciatore mongolo
(Valéry Inkijinoff) di prendere coscienza della necessarietà della rivoluzione. Pudovkin è senza dubbio un maestro,
possibilmente, secondo un parere personale, (senza che passi come
un'eresia) superiore al ben più quotato Ėjzenštejn, che punta in
maniera più decisa su scene corali e di massa e su un montaggio
frenetico che spesso toglie respiro alla storia. Pudovkin dimostra di
saper gestire scene di massa e scene più intime, dosando il ritmo a
seconda delle necessità e delle opportunità concesse dalla
narrazione. Ma se il montaggio è una chiave determinante nel cinema
di Pudovkin (come anche di Ėjzenštejn e del cinema sovietico in
generale), in contrapposizione a Dziga Vertov e al suo “Cineocchio”,
è l'inquadratura ad esserne la vera essenza. Come lo scrittore ha lo
stile, il regista ha l'inquadratura unita al montaggio, veri e propri
elementi della grammatica del film. Nulla è lasciato al caso, ogni
angolazione, ogni gesto, ogni movimento dell'attore (raramente di
macchina) è precedentemente studiato ed analizzato per ottenere
quello che è definito un “montaggio di ferro”, fatto di
parallelismi, giustapposizioni e contrasti voluti e spiazzanti.
Pudovkin concepiva l'attore come un semplice oggetto da plasmare e
dirigere in ogni suo gesto ed espressione. Una posizione molto
estrema che lo indurrà a fare ricorso molto spesso ad attori non
professionisti e a scatenare malumori con attori teatrali. Che dire,
un autore esagerato ed appassionato, ma per questo meritevole di tutta
la stima possibile.
![](https://lh3.googleusercontent.com/blogger_img_proxy/AEn0k_vEfee5HRV4c6urAVQ6WAkinniftabvCce5xXJV1xW5fGOobC_T2oeYlIm4RyYej6RbWqYmGWkloepBHweZ9gKXXCO3aegHn24v836QjWVkc6RNIQJIRZnUTq8zUg=s0-d)
Probabilmente
non sarà il miglior film di Pudovkin, ma
di certo è quello che in questa trilogia “della rivoluzione” è
in grado di mescolare in maniera eccellente azione, epica, avventura
e dramma . Spunti di riflessione notevoli del film sono l'ipocrisia
data delle etichette e come esse siano in grado di cambiare da un
momento all'altro l'opinione e la considerazione che dobbiamo avere
delle persone, nonché il cinismo delle forze di occupazione, che non
rinunciano a creare dal nulla un eroe nazionale per tenere a bada il
popolo locale. Di certo non un film facile da vedere, soprattutto
nella versione che supera le due ore, con scene di rituali e
preparativi che potrebbero risultare estenuanti. Con cautela, da
rivedere.
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