domenica 15 marzo 2015

TEMPESTE SULL'ASIA - Vsevolod Pudovkin (1928)

Titolo originale: Potomok Chingis-Khana
Regia: Vsevolod Pudovkin
Con: Valéry Inkijinoff, Boris Barnet, Aleksandr Chistyakov, Viktor Tsoppi, I. Didintsev
Durata: 125 min 
Paese: URSS                   
Voto globale: ****
Voto categ. (anni '20): ****


Mongolia. Un Lama prega per le sorti di un anziano malato. Il figlio del vecchio, Bair, ha un diverbio con il monaco per via di una preziosa pelliccia. Il Lama cade a terra e perde un antico manoscritto nascosto in un amuleto. Sarà quindi Bair a recarsi in un mercato lontano per rivendere la preziosa pelliccia, che garantirebbe sostentamento alla propria famiglia per molto tempo. Una volta arrivato, il giovane si scontra con la prepotenza di un arrogante venditore occidentale che aggredisce per avergli proposto un prezzo iniquo. Tutto è destinato a cambiare una volta che i colonizzatori inglesi fanno prigioniero Bair, che scoprono poi essere, per via del monoscritto, il diretto discendente di Gengis Khan.

Pudovkin chiude felicemente una ideale triologia iniziata nel 1926 con “La Madre”, proseguita con “La fine di San Pietroburgo” del 1927, e terminata appunto con “Tempeste sull'Asia” del 1928, anche noto in italia con il ben più semplicistico e spoileroso titolo di “L'Erede di Gengis Khan”. Dopo una madre e contadino, ora è il turno di un cacciatore mongolo (Valéry Inkijinoff) di prendere coscienza della necessarietà della rivoluzione. Pudovkin è senza dubbio un maestro, possibilmente, secondo un parere personale, (senza che passi come un'eresia) superiore al ben più quotato Ėjzenštejn, che punta in maniera più decisa su scene corali e di massa e su un montaggio frenetico che spesso toglie respiro alla storia. Pudovkin dimostra di saper gestire scene di massa e scene più intime, dosando il ritmo a seconda delle necessità e delle opportunità concesse dalla narrazione. Ma se il montaggio è una chiave determinante nel cinema di Pudovkin (come anche di Ėjzenštejn e del cinema sovietico in generale), in contrapposizione a Dziga Vertov e al suo “Cineocchio”, è l'inquadratura ad esserne la vera essenza. Come lo scrittore ha lo stile, il regista ha l'inquadratura unita al montaggio, veri e propri elementi della grammatica del film. Nulla è lasciato al caso, ogni angolazione, ogni gesto, ogni movimento dell'attore (raramente di macchina) è precedentemente studiato ed analizzato per ottenere quello che è definito un “montaggio di ferro”, fatto di parallelismi, giustapposizioni e contrasti voluti e spiazzanti. Pudovkin concepiva l'attore come un semplice oggetto da plasmare e dirigere in ogni suo gesto ed espressione. Una posizione molto estrema che lo indurrà a fare ricorso molto spesso ad attori non professionisti e a scatenare malumori con attori teatrali. Che dire, un autore esagerato ed appassionato, ma per questo meritevole di tutta la stima possibile.

Probabilmente non sarà il miglior film di Pudovkin, ma di certo è quello che in questa trilogia “della rivoluzione” è in grado di mescolare in maniera eccellente azione, epica, avventura e dramma . Spunti di riflessione notevoli del film sono l'ipocrisia data delle etichette e come esse siano in grado di cambiare da un momento all'altro l'opinione e la considerazione che dobbiamo avere delle persone, nonché il cinismo delle forze di occupazione, che non rinunciano a creare dal nulla un eroe nazionale per tenere a bada il popolo locale. Di certo non un film facile da vedere, soprattutto nella versione che supera le due ore, con scene di rituali e preparativi che potrebbero risultare estenuanti. Con cautela, da rivedere.

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